intervista a vacca di from the court

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    In una calda giornata milanese, incontriamo Vacca e Federico Traversa (F.T. Sandman) allo showroom Puma. Mancano pochi giorni all’uscita di Pelleossa, la biografia del rapper pubblicata da Chinaski, accompagnata da un nuovo disco e le domande non mancano. Contenere un personaggio come Vacca è quasi impossibile. Di carte in tavola ce ne sono tante e tra la Giamaica e i recenti cambiamenti, Ale racconta a ruota libera. La musica, la sua vita, Kingston, il successo, la gavetta. Proviamo a riordinare una mezzoretta di conferenza stampa ricca di argomenti.

    PELLEOSSA. COME È NATO IL PROGETTO. IDEE E REALIZZAZIONE.
    Vacca Pelleossa è nato qualche mese fa, quando Fede (Federico Traversa, autore con Vacca del libro) ha proposto la cosa al mio management.

    F.T. Sandman Si, possiamo dire che Pelleossa fa parte di un mio percorso letterario abbastanza preciso. Il mio interesse è sempre stato quello di dare una testimonianza dei nostri tempi. Ho legato ogni mio libro a personaggi che mi sembrava sposassero bene questa ottica, che fossero stimolanti in questo senso. Ho iniziato qualche anno fa, con Tonino Carotone. Poi, andando avanti, cercando nuovi stimoli, mi sono reso conto che, se l’idea è quella di rappresentare il nostro tempo, il rap è una forma artistica dalla quale non si può prescindere. Io ritengo che il rap, in questo momento storico, stia facendo quello che ha fatto il cantautorato negli anni ’70. In modo differente e con i limiti del genere, ma anche meglio. Non dovendosi legare ad un percorso politico preciso, com’era d’obbligo nei settanta, il rap ha la possibilità di portare avanti un discorso sul sociale in maniera anche più coerente. Oggi i rapper sono quelli che fanno denuncia sociale e tra i rapper ho scelto un personaggio che, a mio avviso, è quello più complicato da scoprire e da raccontare. Un po’ già per il suo legame con la Jamaica e poi per il suo essere vero. Non soffre di quella sudditanza verso uno stereotipo americano di vita difficile che oggi domina ampiamente l’immaginario collettivo. Diciamo che non ha mai dovuto romanzare il suo vissuto.

    V. C’è anche da dire che se ho accettato è perchè lui ha problemi almeno quanto me (ride). Io di sicuro non sono un rapper che ha sempre messo in piazza i suoi problemi personali. Io parlo di scopate, di cose facili, ma che i ragazzi vedono e fanno ogni giorno. Per tanto tempo la mia musica è stata semplicemente un modo per far divertire, poi, anche grazie all’incontro con Fede, ho cambiato un po’ il mio pensiero in questo senso.
    Era già previsto che Pelleossa fosse accompagnato da una serie di tracce rappresentative delle mie diverse fasi artistiche e personali, pezzi già editi. Diciamo che non mi piaceva l’idea di vendere al pubblico qualcosa che avevo magari già pubblicato gratuitamente online e da qui è nata l’dea di un progetto pensato espressamente come accompagnamento del libro.
    Trattandosi di una biografia poi, era il momento di tirare fuori tutto quello che non avevo mai voluto dire. È stata la prima cosa che ci siamo detti. Io avevo letto la sua traduzione di Heroin Diaries, l’epistolario di Nikki Sixx dei Motley Crue ed è quello che si diceva anche lì. In una biografia bisogna mettere le cose buone e quelle meno buone. Non tutto è per forza un buon esempio per chi leggerà, ma è la tua storia, non ti è concesso scrivere cazzate.

    F.T. Tra l’altro entrambi veniamo da ambienti simili, anche se io da Genova e Ale da Milano, quindi trovarci è stato facile. Pelleossa è nato in modo molto spontaneo.

    BIOGRAFIA, VERITÀ E MESSAGGIO.
    F.T. Quello del messaggio da veicolare è un problema che ci siamo posti. Quando fai un mestiere “pubblico” è chiaro che devi metterti prima di tutto nei panni di chi ascolterà quello che dici. L’idea da cui siamo partiti è che sia possibile, raccontando una storia, tolti tutti gli orpelli, dare un segnale preciso. Se fai il cazzone non vai avanti nella vita. Bisogna mettersi in testa che i tempi del sesso, droga e rock’n'roll sono finiti. Oggi senza professionalità non sali su un palco. Se ci metti sei mesi a registrare un disco che potresti finire in due settimane, l’etichetta ti manda a casa.

    V. Quella verso chi mi ascolta è una responsabilità che sento di sicuro più che in passato. È stata una crescita artistica, dovuta molto alle critiche che ho ricevuto nel corso degli anni. Per quanto i complimenti possano fare piacere, non sono quello che resta. Io in fin dei conti faccio rap dal ’96, dai tempi del freestyle al Muretto, quindi di gavetta ne ho fatta, prima di pubblicare un lavoro ufficiale. Io a quindici anni ho lavorato in cantiere, poi ho fatto un mese e otto giorni di servizio militare e al ritorno ho lavorato in ufficio per i genitori di un amico. Lavoravo di giorno, la sera ero in studio, la notte suonavo e il giorno dopo di nuovo in ufficio. Poi magari arrivavo alle undici, invece che alle nove, ma non sono mai stato uno a cui le cose sono capitate per caso. Ho sempre raccontato le mie esperienze, senza voler essere preso come esempio, dicendo “divertiti, però mettici la testa”, non “se fai così, sei figo”. Forse in Pelleossa la componente di divertimento è venuta un po’ meno, ma d’altra parte ho perso quattro amici negli ultimi sei mesi. In Jamaica la possibilità di venire uccisi per cazzate è davvero alta. È qualcosa che mi ha segnato molto. Perchè poi si fa in fretta a lamentarsi della crisi, ma i dieci euro per le canne, papà te li da comunque. In Jamaica l’unica cosa che costa poco sono proprio le canne, ma i problemi sono reali. Là davvero ci sono motivi per lamentarsi.

    UN CAPITOLO PIÙ “SERIO” E AUTOBIOGRAFICO CHE IN PASSATO?
    V. Assolutamente. E non parla solo di me. Ho voluto mettere nel disco una ricerca personale di verità. Quando senti al telegiornale di un disastro nucleare in Giappone e tre giorni dopo nessuno più ne parla, qualche domanda te la fai. Qualcuno dovrebbe parlarci di come le cose vanno davvero nel mondo. Noi rapper siamo sempre stati bravi a parlare di cazzate, di droga, di party, con gli argomenti seri forse facciamo un po’ più fatica. Però è vero, chi ci segue ci vede come dei fratelli maggiori, quindi basterebbe uno spunto posto nel modo giusto. Poi non voglio dare l’idea che Pelleossa sia un disco palloso, ma la gente ha voglia di informarsi, gli basta un qualcosa in più per aprire gli occhi.

    LIBRO E CD.
    V. L’album non è una release ufficiale. Diciamo che ho seguito musicalmente quella che era la narrazione del libro, cercando anche di andare oltre gli errori fatti nei progetti passati e raccontando qualcosa.

    F.T. Io sono un grande conoscitore di Bob Marley. In un’intervista diceva che chiunque abbia in mano un microfono, o il modo per comunicare qualcosa, ha il dovere morale di dire qualcosa di intelligente. In quel caso era qualcosa di molto diverso, era il rastafarianesimo, ma anche nel caso di Ale, il concetto di base rimane lo stesso. Tutti provano a parlare ai ragazzini, il problema è avere la credibilità per farlo, avere il polso della situazione. È come quando a scuola ti leghi di più a un professore che sa come prenderti, piuttosto che a uno che parla per frasi fatte. Vacca ha la credibilità che serve a parlare e soprattutto a farsi ascoltare.

    V. Poi in realtà non voglio passare per un artista conscious, tutt’altro. Non sono esattamente quello che si definirebbe un buon esempio.

    F.T. Ma in fondo è anche quello che ti da credibilità. I ragazzini si sono rotti le palle di Ligabue. Perchè? Perchè non è attuale. Vent’anni fa poteva parlare a un ragazzo forse, ma ora?

    PELLEOSSA. L’ASPETTO MUSICALE.
    V. È un altro passo della mia carriera. Ho iniziato nel 2003 con VH, che di fatto era un disco rap. Certo, c’era qualcosa di reggae, giusto qualche skit, ma era rap e basta. Faccio quello che voglio era già diverso. C’era molto dei miei ascolti di ragazzino, quindi la west e il nuovo suono south che stava uscendo fuori bene in quegli anni. Sporco non saprei neanche definirlo. Forse era un disco più pop. Non so, l’ha fatto Fish, dovreste chiedere a lui come classificarlo. Pelleossa è ancora diverso. C’è dentro davvero tanto, dal rap, al reggae, ai pezzi dancehall.
    Dal lato delle produzioni mi sono affidato a Zed, Enmicasa, che mi ha prodotto quattro o cinque brani. Ha prodotto qualcosa anche Jason Simmons, un producer di riddim giamaicano molto bravo. In realtà il pezzo prodotto da lui, We Gonna Mek It, con Emis Killa, era stato realizzato per Kartel. Lui non l’ha più usato e io registro nel suo studio a Kingston, quindi mi sono preso il riddim.
    Come featuring invece ho voluto solo gli amici, quindi G. Nano, Emis, Roofio&Danti, gli Enmicasa e Nacho e Rik Boy, due ragazzi di Cagliari con cui ho già lavorato in passato. Diciamo che non ho voluto collaborazioni con grandi nomi, solo per fini commerciali.

    F.T. Tra l’altro Pelleossa esce con la benedizione di Alborosie. Mi ricordo che ero a Pinerolo, da Bunna e stavamo parlando con Alborosie e dicevamo del fatto che tutte le volte che lo aveva chiamato a Kingston, non era mai riuscito a trovare Vacca. Poi un paio di giorni dopo mi chiama Vacca, dicendo che era passato Albo.

    V. Con Alborosie c’è qualcosa nell’aria. Nell’album in realtà doveva anche esserci un pezzo con Madaski, una cosa molto elettronica, dub. Era un pezzo che doveva finire nel nuovo degli Africa Unite, poi per vari motivi non sono riusciti a chiuderlo in tempo e mi ci sono buttato io. Probabilmente uscirà come esclusiva tra qualche tempo.

    FILOSOFIA VACCA. TANTO LAVORO, PER AVERE QUALCOSA IN CAMBIO.
    V. La mia filosofia è sempre quella di lavorare molto. Dal 1996 al 2007 ho fatto davvero poco, fondamentalmente solo i miei primi due album ufficiali. Poi da Poco di buono in poi ho cominciato a esplorare la possibilità della free music. Solo da quell’album ho tirato fuori due singoli, Accalappianani e Vita da re, che potevano tranquillamente essere singoli ufficiali. Non è che i miei produttori ne fossero così contenti. Da lì ho iniziato a mettere online un brano nuovo ogni 15.000 play su Myspace e solo nel 2010 ho pubblicato qualcosa come 110 pezzi. Sono stato parecchio produttivo.
    Ho sempre pensato che a dare qualcosa alla gente, qualcosa prima o poi ti ritorna. Ok, io vi regalo la musica e ve ne regalo tanta, ma quando poi esce l’album ufficiale sta a voi supportare. Con questo ragionamento siamo arrivati undicesimi in classifica con un disco come Sporco, pubblicato da indipendente. Fai conto che nello stesso periodo è uscito il disco dei Sud Sound System, formazione con tutt’altra storia alle spalle, che non ha fatto i miei numeri. Niente di cui diventare ricchi, ma i miei fan, quelli che molti invidiosi chiamano i “bimbiminchia”, sono convinto che altri farebbero carte false per averli come supporter. Io faccio molto per loro e loro ringraziano. Solo che a sto giro tocca proprio comprarlo il libro (ride).
     
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